Scheda di lettura Il femminismo è per tutti
di bell hooks
I numeri tra parentesi indicano le pagine della edizione italiana
Il libro raccoglie il pensiero della filosofa femminista americana bell hooks (è lo peudonimo di Gloria Jean Watkins e va critto in minuscolo). Lo svolgimento muove approssimativamente dal centro individuale (la coscienza della singola donna) verso l’orizzonte della totalità (una totalità quasi metafisica, alla fine).
Il primo punto quindi è l’insistenza sul tema della autocoscienza, intesa come un ripensamento continuo del proprio sé, anche nella relazione con le altre donne (relazione che viene indicata col termine «sorellanza»).
Il secondo punto riguarda i «diritti riproduttivi», una espressione veramente brutta che però serve alla hooks per evitare di incagliare tutto il discorso esclusivamente sul tema dell’aborto.
Il terzo livello, decisamente più «sociale», riguarda l’intreccio (che la hooks ritiene decisivo) tra lotta per i diritti delle donne, lotta di classe e lotta al razzismo.
Tutte queste lotte sono solo frazioni di quello che è il vero obiettivo del femminismo, ossia i rapporti di potere e di dominio tra gli uomini, che impediscono il libero esprimersi della persona e quindi sono sempre causa di infelicità. Da questo punto la hooks si spinge a sostenere che il femminismo deve difendere anche i diritti dei bambini e che anche le donne possono essere vittime della ideologia patriarcale ed esercitare violenza contro i più deboli, ossia appunto i bambini
In positivo, si tratta di arrivare alla liberazione dell’amore come della forza positiva che può plasmare i rapporti umani in modo da consentire la felicità in un mondo nuovo.
Il vero obiettivo del femminismo
Il senso del libro è quindi proprio nel titolo: «l’anima della nostra politica è l’impegno a mettere fine al dominio» (130) che è qualcosa che riguarda tutti, uomini, donne e bambini. «Il centro vitale della nostra visione alternativa continua a essere una verità basilare e necessaria: dove c’è dominio non può esserci amore. Il pensiero e la pratica femminista evidenziano il valore della crescita reciproca e dell’autorealizzazione tanto nella coppia quanto nell’esercizio della funzione genitoriale. Questa visione dei rapporti in cui sono rispettati i bisogni di ognuno, in cui nessuno teme la subordinazione o l’abuso, va contro tutto ciò che il patriarcato afferma in merito alla struttura delle relazioni» (131).
Il vero obiettivo della lotta femminista perciò non sono gli uomini («non ci siamo unite contro gli uomini» dichiara espressamente la hooks) (30), che anzi sono chiamati a collaborare, ma appunto il dominio in sé: dominio dell’uomo sulla donna, prima di tutto, ma anche dell’uomo sul bambino e della donna sul bambino, per finire col dominio dell’uomo su tutto ciò che lo circonda.
Il dominio (parola citata 116 volte nella traduzione italiana) è il male: è il sintomo di un rapporto malato con se stessi, con gli altri (prima di tutto con le altre) e infine col mondo (anche se hooks non lo dice esplicitamente). L’obiettivo è chiaro: «insistendo su un’etica della mutualità e dell’interdipendenza, il pensiero femminista ci offre un modo per mettere fine al dominio e, al contempo, modificare l’impatto della disuguaglianza» (147).
«Il sapere femminista è per tutti» (40) conclude la hooks in uno slancio quasi mistico, presentando la prassi femminista come una spinta palingenetica capace di salvare il mondo.
È tanto evidente che il nemico della lotta è il dominio dell’essere umano su un altro essere umano (e non semplicemente la lotta per avere uguali diritti e/o uguali stipendi all’interno di un sistema politico-economico immutato, ossia ancora caratterizzato dal sessismo in quanto tale) che hell scrive a un certo punto: «Finché le donne usano il loro potere di classe o di razza per dominare altre donne, la sorellanza femminista non può realizzarsi appieno» (31). La polemica è rivolta qui verso le donne bianche che accettano di restare in una condizione di sottomissione rispetto ai maschi bianchi ma esercitano verso le donne nere le stesse forme di dominio che i loro compagni maschi esercitano sia verso di loro sia verso ogni persona nera. In effetti, nota amaramente la filosofa «una grande massa di donne ha semplicemente abbandonato il concetto di sorellanza. Singole donne che in passato avevano criticato e sfidato il patriarcato si sono riallineate con il sessismo maschile» (32). L’autentico femminismo invece sostiene che «le donne possono raggiungere il successo e l’autorealizzazione senza dominarsi a vicenda» (33). Il tema attraversa tutto il libro e viene ripreso più volte: «l’impegno femminista per porre fine alla violenza maschile contro le donne deve espandersi in un movimento teso a mettere fine a ogni forma di violenza» (87).
Il dominio dell’uomo sull’uomo, quindi, è la radice di tutti mali e la sua critica fornisce un criterio per unificare tutte le lotte per la liberazione dell’uomo. Per esempio, anche «la violenza patriarcale tra le mura domestiche si fonda sull’idea che è accettabile che un individuo dotato di maggior potere controlli gli altri tramite varie forme di forza coercitiva» (82).
Da questo punto di vista è assolutamente possibile che siano proprio le donne a esercitare forme di dominio, e proprio di dominio patriarcale, sia verso altre donne (per esempio donne bianche verso donne nere) sia verso i bambini.
In altre parole, anche se è vero che «la maggior parte delle donne non usa la violenza per dominare gli uomini» (85) non si può dire che «per essenza» le donne sono lontane dal dominio o che non sanno o non vogliono esercitare forme di dominio di tipo patriarcale. Di nuovo, non si possono contrapporre le donne «buone» ai maschi «cattivi». Anzi, «il fatto che molti attacchi violenti nei confronti dei bambini siano perpetrati da donne non viene sottolineato abbastanza né lo si considera una diversa espressione della violenza patriarcale» (84). Invece, «gli adulti che sono stati vittime di violenza patriarcale per mano di una donna sanno che le donne non sono nonviolente» (84).
In effetti «in una cultura della dominazione tutti sono educati a considerare la violenza uno strumento accettabile di controllo sociale» (85) e anche tra le donne «molte credono che una persona in posizione d’autorità abbia il diritto di usare la forza per mantenere l’autorità» (85).
Quelli che sono i «soggetti dominanti mantengono il potere con la minaccia (messa in atto o meno ) di ricorrere a una punizione severa, fisica o psicologica, ogni volta che le strutture gerarchiche in vigore sono minacciate» (86).
«Masse di uomini, disoccupati o della classe operaia che sentono di non avere alcun potere nel mondo del lavoro all’interno del patriarcato suprematista bianco sono indotte a pensare che il solo posto in cui avranno autorità e rispetto assoluti sia la casa» (86)
«Ciò di cui c’era e continua a esserci bisogno è una visione della maschilità in cui l’autostima e l’amore di sé come esseri unici formino la base dell’identità. Le culture del dominio ledono l’autostima, sostituendola con l’idea che il proprio senso di sé provenga dal dominio sull’altro La maschilità patriarcale insegna agli uomini che il loro senso di sé e la loro identità, la loro ragion d’essere, consistono nella loro capacità di dominare gli altri» (92).
«La maschilità patriarcale incoraggia gli uomini a essere patologicamente narcisisti, infantili e psicologicamente dipendenti dai privilegi (per quanto relativi) concessi loro per il semplice fatto di essere nati maschi. Molti uomini hanno la sensazione che la loro vita sarebbe in pericolo se questi privilegi fossero tolti loro poiché non si sono costruiti un autentico nucleo identitario» (92).
«Il patriarcato capitalista suprematista bianco non è in grado di assicurare tutto ciò che ha promesso Molti uomini sono angosciati perché non si impegnano nelle critiche liberatorie che consentirebbero loro di ammettere che quelle promesse avevano radice nell’ingiustizia e nel dominio e che anche quando sono state mantenute, esse non hanno mai condotto gli uomini alla gloria…
Il pensiero femminista insegna a tutte e tutti noi in particolare ad amare la giustizia e la libertà in modi che stimolino e affermino la vita» (94).
Il tradimento di una parte delle femministe
Questi obiettivi però sono andati in parte smarriti. La hook pone molta enfasi, soprattutto nella prima parte del libro, nel sottolineare che il movimento femminista negli Stati Uniti si è polarizzato tra una parte considerata «elite trainante» e il resto: la «elite» era in realtà composta di donne bianche benestanti, per le quali il femminismo voleva dire avere gli stessi diritti dei maschi bianchi del loro livello sociale. Per questo la lotta femminista, guidata da queste donne, si è concentrata sulla parità di salari e sulla libertà sessuale, e all’interno di questa soprattutto sul tema dell’aborto. Ma non necessariamente questo era l’obiettivo del resto delle donne, che invece intendevano (e intendono) libertà di scelta per la propria vita prima di tutto come indipendenza dai maschi e capacità di sopravvivenza fisica.
Queste donne, considerate le guide del movimento soprattutto dalla stampa nazionale (che però, nota la hell, è in mano a capitalisti maschi e quindi è interessata a fornire una immagine negativa delle femministe a costo di distorcere la realtà dei fatti), erano «femministe riformiste che pretendevano di proiettare l’immagine di un movimento di donne la cui unica ragion d’essere era ottenere la parità con gli uomini nel quadro del sistema vigente» (14) senza distruggere o almeno cambiare il sistema stesso.
Ma «per le donne nere … era chiaro che non avrebbero mai ottenuto la parità all’interno del patriarcato capitalista suprematista bianco esistente» (15). La distinzione di genere negli Stati Uniti si intreccia per hooks in modo inestricabile con la contrapposizione bianchi – neri e con la lotta di classe.
Insomma, all’interno del movimento femminista c’erano due anime, che sono entrate in conflitto: «il conflitto è scoppiato tra la visione riformista della liberazione delle donne che in sostanza invocava parità di diritti per le donne all’interno della struttura di classe esistente e modelli più radicali e/o rivoluzionari, che miravano a un cambiamento radicale della struttura esistente di modo che i modelli della mutualità e dell’uguaglianza potessero prendere il posto dei vecchi paradigmi» (hook, 2021, 54).
«Le donne bianche appartenenti a una classe privilegiata hanno dichiarato immediatamente che il movimento era di loro proprietà … mettendo le bianche della classe operaia, le bianche povere e tutte le donne di colore nella posizione di gregarie [e] poco importa che un buon numero di bianche della classe operaia o di nere avesse guidato il movimento in direzioni radicali. Alla fine, le bianche con potere di classe hanno dichiarato di essere le padrone del movimento: le leader erano loro, mentre tutte le altre erano semplici seguaci. Nel neocolonialismo contemporaneo le relazioni parassitarie di classe hanno messo in ombra le questioni della razza, della nazionalità e del genere. E il femminismo non è sfuggito a tale dinamica» (hook, 2o21, 63).
hooks nota amaramente che «la libertà delle donne delle classi privilegiate di tutte le razze richiedeva la subordinazione prolungata delle donne povere e della classe operaia» (59).
«Molte donne nere e di colore hanno constatato che le bianche delle classi privilegiate beneficiavano più di qualsiasi altro gruppo delle conquiste economiche del femminismo riformista che si trattasse di quote rosa o di azioni affermative volte a ridurre la discriminazione razziale» (60)
Alla fine il femminismo è sembrato così solo «uno dei tanti prodotti di lusso occidentali che le donne di altre culture avranno il diritto di consumare solo se lotteranno per conquistarlo» (hooks, 2021, 66).
Il movimento femminista, quindi, ha fortemente sottovalutato l’intreccio tra questione razziale e lotta di classe, non vedendo che proprio le donne nere delle classi subalterne erano la più escluse non solo dai benefit del sistema patriarcale ma anche e soprattutto dai risultati positivi ottenuti dalle donne con le loro lotte, appunto perché questi risultati erano stati proposti e cercati soprattutto dalla componente bianca e benestante del movimento.
Da questo punto di vista la polemica di hooks verso il suo stesso movimento è forte: «Focalizzandosi soprattutto sulla parità con gli uomini nel mondo del lavoro, il pensiero femminista riformista ha messo in ombra la radicalità delle fondamenta originarie del femminismo contemporaneo che, oltre alle riforme, chiedeva una ristrutturazione complessiva della società che liberasse la nostra nazione da ogni traccia di sessismo» (18).
«Man mano che il movimento femminista cresceva e gruppi privilegiati di donne bianche e istruite cominciavano ad avere accesso al potere di classe al pari della loro controparte maschile, la lotta di classe femminista ha smesso di essere considerata importante» (hook, 2021 54).
Queste (pseudo) femministe, per lo più bianche, così «potevano liberarsi del dominio maschile nel mondo del lavoro ed essere più autodeterminate nei loro stili di vita. Il sessismo non era finito, ma loro potevano massimizzare la propria libertà all’interno del sistema esistente» (hooks, 2021, 18). Avevano raggiunto sì un obiettivo di liberazione, ma si trattava di un obiettivo limitato e in qualche modo meschino.
«Le donne bianche riformiste dotate di un privilegio di classe erano fin dall’inizio ben consapevoli che il potere e la libertà che loro volevano erano il potere e la libertà di cui vedevano godere gli uomini della loro classe» (hooks, 2021, 55) e «quando le donne hanno acquisito uno status di classe più elevato e un potere maggiore senza comportarsi diversamente dagli uomini la politica femminista si è svigorita» (hooks, 2021, 59).
In altre parole, molte delle femministe hanno tradito la missione originaria del femminismo, che per la hooks è una forza rivoluzionaria che vuole cambiare in modo stabile e definitivo la vita di tutti uomini eliminando le relazioni di potere e di dominio dell’uomo sull’uomo. Ha cioè un orizzonte vastissimo, il più vasto concepibile, e non può ridursi a semplici rivendicazioni salariali.
«Il tradimento più profondo delle tematiche femministe è stata l’assenza di una protesta femminista di massa contro l’attacco del governo alle madri single e lo smantellamento del sistema di welfare» (hooks, 2021, 60. La strategia del patriarcato maschilista era quella di «femminilizzare la povertà» (hooks, 2021, 60) mentre al contrario «i nostri obiettivi erano e sono diventare autosufficienti sul piano economico e trovare dei modi per aiutare altre donne nel loro tentativo di migliorare la propria situazione finanziaria» (hooks, 2021, 61). L’esperienza ha mostrato che non ci sono compromessi: «Le nostre esperienze smentiscono la teoria che le donne possano migliorare la loro situazione economica solo agendo d’intesa con il patriarcato capitalista esistente» (hooks, 2021, 60).
La lotta contro il patriarcato
È così molto chiaro quale sia il vero obiettivo del femminismo secondo hook: combattere il «patriarcato capitalista suprematista bianco», una densa formula che ricorre spesso nel libro per indicare quel grumo di potere dell’uomo sull’uomo che si è diffuso sulla terra avvelenandone la vita.
«Patriarcato» sembra voler indicare un sistema di rapporti sociali caratterizzati dalla differenza sessuale, nella quale i maschi hanno specificamente dei vantaggi. Questi vantaggi sono di ogni tipo, ma scolpiscono una differenza di ruoli e di potere tra maschi e femmine che inquina tutto il resto della vita.
Il pensiero patriarcale diventa quindi un sinonimo di modalità sessista di concepire non solo i rapporti tra maschi e femmine, ma tutta la vita e può essere descritto come un atteggiamento che spinge tutti, uomini e donne, «ad abbracciare un’etica del dominio che afferma che i forti hanno il diritto di dominare sugli inermi e possono ricorrere a qualsiasi mezzo per sottometterli» (97).
Tuttavia, «quei benefici [che i maschi ricevono dal patriarcato] hanno un prezzo. In cambio di tutti i privilegi che gli uomini ricevono dal patriarcato, si richiede loro di dominare le donne, di sfruttarci e opprimerci, ricorrendo alla violenza qualora sia necessario per mantenere intatto il patriarcato. Per molti uomini è difficile essere dei patriarchi. Molti di loro sono disturbati dall’odio e dalla paura delle donne, dalla violenza maschile contro le donne, perfino gli uomini che perpetuano tale violenza. Tuttavia hanno paura di rinunciare ai benefici. Se il patriarcato cambia, non sanno bene che cosa ne sarà del mondo che conoscono più intimamente. Perciò trovano più facile sostenere passivamente il dominio maschile anche quando, nel profondo della loro mente e del loro cuore, sanno che è sbagliato» (11).
Anche i maschi quindi in qualche modo vanno «liberati» e aiutati a dare il loro contributo alla lotta contro i rapporti di potere: «Senza i maschi come alleati nella lotta il movimento femminista non progredirà» (26). In questo senso il femminismo «è per tutti», come dice il titolo del libro, e non solo per le donne.
Il sessismo è uno degli aspetti del dominio che vanno combattuti con maggiore decisione: «il femminismo è antisessismo» (26), dice la hooks, e ribadisce subito dopo: «La minaccia, il nemico, sono il pensiero e il comportamento sessista» in quanto tale (27) e non i maschi: il comportamento sessista può essere fatto proprio e interiorizzato anche dalle donne, che in questo modo se ne rendono complici, così come, reciprocamente, il comportamento antisessista può essere fatto proprio e interiorizzato anche dai maschi.
Invece, l’astuta strategia dei mezzi di comunicazione di massa, che secondo la hooks, – ricordiamolo – è in mano al patriarcato mainstream suprematista bianco, «ha rafforzato l’idea che i problemi delle donne provenienti dai gruppi socialmente privilegiati erano i soli degni di ricevere attenzione. La riforma femminista mirava a ottenere la parità sociale per le donne in seno alla struttura esistente. Le donne privilegiate volevano essere pari agli uomini della propria classe» (hooks, 2021, 58). Si è celebrato un equivoco, tutto a vantaggio della posizione conservatrice maschile: «Gli sforzi femministi per garantire alle donne l’uguaglianza sociale con gli uomini della loro classe hanno coinciso in pieno con il timore patriarcale capitalista suprematista bianco che il potere bianco diminuisse se persone non bianche ottenevano uguale accesso al potere e al privilegio economico. Sostenere quello che in pratica è diventato un femminismo riformista bianco di potere ha consentito al patriarcato bianco suprematista mainstream di consolidare il proprio potere e al contempo di pregiudicare la politica radicale del femminismo» (hoos, 2021, 58).
Il corpo come punto di partenza
Concretamente il punto di partenza della lotta contro il sessismo è il corpo delle donne nella sua dimensione più intima: il diritto alla sessualità e alla riproduzione. Quando si parlava (e si parla) di diritto alla parità sessuale con i maschi si intendeva «fare tutto il sesso che si voleva con chiunque si desiderasse» (41), cosa che portava subito al problema di come evitare le gravidanze indesiderate. Ed è qui che il ruolo delle donne bianche delle élite sociali ha avuto un peso decisivo, perché «col senno di poi, è evidente che il fatto di mettere l’accento sul’aborto piuttosto che sui diritti riproduttivi nel loro insieme rifletteva gli orientamenti di classe delle donne che erano in prima linea nel movimento» (42), ossia donne bianche benestanti. E «le donne bianche dotate di un privilegio di classe si identificavano più intimamente con lo strazio di una gravidanza indesiderata» (42), e trovavano quindi naturale mettere questo tema al centro della lotta politica. Non che la questione non riguardasse le donne nere: «semplicemente» nota la hooks «per masse di donne americane non era l’unico problema riproduttivo e nemmeno il più importante» (43). Secondo la hooks il focus dell’attenzione dovrebbe essere posto sui diritti riproduttivi nel loro complesso perché questo è un passaggio «indispensabile a proteggere e sostenere la nostra libertà»(46).
A un livello successivo, leggermente più esterno – alla lettera – rispetto al corpo in quanto tale, c’è stata storicamente la questione dei vestiti, che si suddivide subito in due coppie di tematiche che si intrecciano reciprocamente: da un lato i vestiti in rapporto alla femminilità (soprattutto nella sfera dell’intimo, con la querelle sul reggiseno) dall’altro gli abiti in relazione al lavoro. In ogni caso, ricorda la hooks, fu una «decisione epocale»: «che le donne spogliassero i loro corpi di indumenti costrittivi, malsani e scomodi – reggiseni, busti, corsetti, reggicalze, eccetera – fu un atto radicale di riappropriazione rituale della saluti e della gloria del corpo femminile» (47)
D’altro canto, «il solo fatto di poter andare al lavoro in pantaloni era fantastico per molte la cui attività lavorativa richiedeva che si piegassero e chinassero continuamente» (47).
Esisteva (ma direi che esiste ancora) un ruolo chiave dei media: «Al cinema, alla televisione e negli annunci pubblicitari le immagini di donne filiformi, tinte di biondo, che paiono pronte a uccidere per un buon pasto, sono diventate la norma» (hooks, 2012, 50) e poco dopo: «Oggigiorno, nel mondo della moda dove la norma sono capi di vestiario che sembrano disegnati per i corpi di ragazzine adolescenti esili come giunchi tutte le donne, indipendentemente dalla loro età, vengono consciamente o inconsciamente educate a essere assillate dal pensiero del proprio corpo, a considerare problematica la carne… Se continuiamo a permettere alla sensibilità patriarcale di informare l’industria della bellezza in tutte le sfere, le bambine e le adolescenti non avranno modo di sapere che le pensatrici femministe riconoscono il valore della bellezza e dell’ornamento» (hooks, 2021, 52).
Il punto chiave qui è, ovviamente, che lo sguardo vincente è quello del maschio, cui le donne devono adattarsi: se il maschio vuole le donne magre, le donne dovranno essere magre; se il maschio le vuole bionde, dovranno essere bionde; se le vogliono con i capelli lisci, dovranno lisciarseli. Quest’ultimo tema non è presente in hook, ma si ricava dal romanzo Americanah di Ngozi Chiaminanda Adichie, che dedica molte pagine iniziali a descrivere un lunga seduta dalla parrucchiere per farsi stirare i capelli, e spiega dettagliatamente perché è coì importante per le donne afroamericane
Questo porta a gravi conseguenze, che in ogni caso sono presenti anche nella società italiana di oggi e che riguardano le malattie del corpo: «La malattia dell’anoressia è diventata un tema comune un argomento di cui trattano libri, film eccetera. Ma non c’è monito, per quanto terribile che riesca a dissuadere le donne convinte che il loro valore, la loro bellezza il loro merito intrinseco sono determinati dal fatto di essere magre o no» (hooks, 2021, 51). La hook conclude in modo abbastanza sconsolato: «le ragazze di oggi odiano sé stesse quanto le loro omologhe pre-femministe» (hooks, 2021, 51). In effetti questo tema delle ragazze (o delle donne) che odiano se stesse va approfondito. Come è possibile una cosa del genere? Come si può odiare se stessi? È un sentimento che va contro la radice stessa non solo dell’umano, ma anche della dimensione animale e vitale stessa.
Il lavoro e la lotta di classe
Nel movimento femminista americano (ma di nuovo, direi, anche in quello italiano) c’è stato un grande equivoco: che il problema fosse solo quello si poter avere accesso al mondo del lavoro in sé, come se il semplice poter uscire di casa per svolgere una qualsiasi attività retribuita potesse in modo automatico metter fine alle differenze di genere.
La hooks scrive: «sono stata tra le critiche più severe della visione del femminismo portata avanti dalle pensatrici riformiste agli inizi del movimento, una visione secondo la quale il lavoro libererebbe le donne dal dominio maschile» (hooks, 2021, 68). Si è giunti al punto che «si incoraggiavano tutte le donne a vedere i guadagni economici delle donne benestanti come un segno positivo per tutte» (hooks, 2021, 59). Invece, scrive la pensatrice americana, in sé «il lavoro non libera le donne dal dominio maschile. … Masse di donne sono in collera perché il pensiero femminista le ha indotte a credere che avrebbero trovato la liberazione nel mondo del lavoro. Perlopiù hanno scoperto di fare gli straordinari in casa e sul posto di lavoro» (hooks, 2021, 69).
Ma «le donne hanno forto a incolpare il femminismo di averle spinte a lavorare come molte pensano. La verità è che, a portare un maggior numero di donne nel mercato del lavoro, è stata la forza del capitalismo di consumo» (70). «Solo le donne privilegiate potevano concedersi il lusso di immaginare che lavorare fuori casa le avrebbe davvero munite di un reddito sufficiente a renderle autonome sul piano economico Le donne della classe operaia sapevano già che i salari che ricevevano non le avrebbero liberate» (56). Di nuovo, la questione della lotta di classe si intreccia con la lotta per i diritti delle donne. «Non era la discriminazione di genere o l’oppressione sessista a impedire alle donne privilegiate di tutte le razze di lavorare fuori casa, era il fatto che gli impieghi a loro disposizione sarebbero stati gli stessi mestieri non qualificati a bassa retribuzione aperti a tutte le lavoratrici» (55).
Il lavoro fuori casa è solo una condizione di possibilità della liberazione delle donne, ma il vero punto chiave è una reale autosufficienza economica: «se una donna accede all’autosufficienza economica le sarà più facile, nel momento in cui sceglie la libertà, sottrarsi a una relazione in cui il dominio maschile è la norma…l’autosufficienza economica è necessaria se le donne vogliono liberarsi» (hooks, 2021, 69). I salari delle donne, in altre parole, devono essere tali da metterle in condizione di gestire veramente le proprie vite: non devono essere considerati come una «aggiunta» al «vero» stipendio che entra in casa, ossia quello del maschio.
«Quando le pensatrici femministe riformiste provenienti da ambienti sociali privilegiati, il cui obiettivo principale era ottenere la parità sociale con gli uomini della loro classe, equiparavano il lavoro alla liberazione, quel che avevano in testa erano carriere ben remunerate La loro visione del lavoro aveva ben poca attinenza con la massa delle donne» (hooks, 2029 69).
«Quando gli uomini occupavano la maggior parte del posti di lavoro, il lavoro delle donne consisteva nel far si che la casa fosse per loro un luogo di benessere e di relax. Per le donne la casa era rilassante solo quando gli uomini e i bambini non erano presenti. Quando in casa una donna passa tutto il tempo a occuparsi dei bisogni degli altri l’ambiente domestico è per lei un posto di lavoro non un luogo di distensione benessere e piacere» (hooks, 2021, 70).
«Alle prese con la dura realtà che lavorare fuori casa non voleva dire che il lavoro di casa sarebbe stato spartito alla pari con il proprio partner di sesso maschile, le donne della classe media e medio bassa che l’ethos del femminismo aveva improvvisamente spinto a entrare nel mondo del lavoro non si sono sentite liberate» (hooks, 2021, 59).
A conclusione del capitolo sul senso del lavoro per i movimento femminista, la hooks scrive molto nettamente che «se esso [il movimento femminista] vuole avere successo, è vitale che affronti congiuntamente queste due questioni: in che modo le donne possano uscire dalla schiera dei poveri, e a quali strategie possano ricorrere per vivere bene pur con pochi soldi» (hooks, 2021, 70)
Sull’altro versante, quello maschile, «un progetto femminista importante per il futuro consisterà nell’informare realisticamente gli uomini sulla natura delle donne e del lavoro, affinché possano rendersi conto che le donne che lavorano non sono loro nemiche»(hooks, 2021, 74).
Uomini e donne
Un altro grande equivoco, alimentato dalla interpretazione che i giornali e i media hanno dato del femminismo, è che il movimento sia «contro» i maschi: in questo modo era più facile raccogliere questi ultimi in una opposizione generalizzata contro le donne che lottavano per la loro liberazione perché «tacciando il femminismo di odio-nei confronti-dei-maschi, gli uomini potevano distogliere l’attenzione dalla loro responsabilità nei confronti del dominio maschile» (91).
Una delle mosse comunicative più efficiaci, in questa strategia, è stata quella di identificare le donne attive nel movimento femminista con le lesbiche e queste ultime come persone che odiano gli uomini: «Il fatto che le femministe fossero raffigurate come odiatrici degli uomini si fondava sul presupposto che tutte le femministe fossero lesbiche» (90) e «sebbene nel movimento femminista le fazioni anti-uomini fossero numericamente esigue era difficile scalfire l’immagine di donne – che – odiano-i-maschi che nell’immaginario pubblico era andata associandosi alle femministe»(91).
La ragione per la quale la componente lesbica del movimento femminista è risultata immediata sovraesposta nella comunicazione è che le «pensatrici femministe lesbiche sono state tra le prime a sollevare la questione della classe nel movimento femminista e a esprimere il proprio punto di vista in un linguaggio accessibile [perché] erano donne che non avevano mai immaginato di dipendere da un marito» (56).
Sfortunatamente alcune donne sono cadute in questo trabocchetto anche perché la polarizzazione maschi-femmine permetteva di mettere in secondo piano o di nascondere il fatto che queste donnein realtà cercavano solo una «maggiore mobilità di classe», ossia cercavano solo di portarsi alle stesse condizioni di maschi bianchi adulti, senza realmente voler modificare la struttura della società dato che queste femministe in realtà stavano già godendo dei privilegi della classe sociale alta o media-alta cui appartenevano..
«Era difficile prendere atto che il vero problema non erano gli uomini. Prenderne atto richiedeva una teorizzazione più complessa richiedeva che si riconoscesse il ruolo svolto dalle donne nel mantenimento e nella perpetuazione del sessismo…anche se i singoli uomini si spogliavano del privilegio patriarcale, il sistema del patriarcato, del sessismo e del dominio maschile rimaneva intatto e le donne continuavano a essere sfruttate e/o oppresse» (89).
«Se la teoria femminista avesse proposto visioni più liberatore della maschilità sarebbe stato impossibile per chiunque liquidare il movimento definendolo anti-uomini» (91): invece «la sola alterativa alla maschilità patriarcale avanzata dal movimento femminista o dal movimento degli uomini era che i maschi diventassero più femminili. L’idea di femminile che veniva suggerita scaturiva dal pensiero sessista e non rappresentava un’alternativa a esso» (92)
Il femminismo e la famiglia
«Il movimento femminista è pro-famiglia» (101): su questo punto la hooks è nettissima, come netto è il suo rammarico per il fatto che per molto tempo sulle politiche famigliari del movimento c’è stato un grande fraintendimento, legato appunto al fatto che si è concepita la lotta delle donne contro gli uomini individuando in essi le uniche radici del patriarcato.
È vero, «nella fase iniziale le attiviste femministe si sono concentrate cosi massicciamente sui legami privati e sui rapporti domestici perché era li che le donne di tutte le classi e razze sentivano il peso del dominio maschile, che a esercitarlo fossero genitori patriarcali o il coniuge» (102) mentre «altre ritenevano che la monogamia sessuale con gli uomini rafforzasse l’idea che il corpo femminile è un bene appartenente all’individuo di sesso maschile cui la donna è legata.» (103) e quindi, nuovamente, concentravano la lotta sui diritti sessuali e quindi sull’accesso agli anticoncenzionali e all’aborto in caso di necessità. Ma anche qui, la lotta è stata condotta in modo unilaterale, ossia senza inquadrarla con chiarezza nell’orizzonte della vera lotta, quella contro le forme di dominio in quanto tale dell’uomo sull’uomo: col risultato che «la maggior parte dei maschi era più disposta ad accogliere le trasformazioni femministe della sessualità femminile che inducevano le donne a essere sessualmente più attive che non quelle che li costringevano a modificare il proprio comportamento sessuale»(104). In altre parole, i maschi accettavano volentieri il femminismo che esaltava la libertà sessuale delle donne perché pensavano che in questo modo sarebbe stato per loro più facile avere rapporti sessuali consenzienti e non impegnativi almeno con alcune di loro.
In realtà «le relazioni non monogamiche spesso davano semplicemente maggior potere agli uomini indebolendo le donne. Mentre le donne potevano scegliere liberamente di fare sesso con un uomo che stava con un’altra donna spesso gli uomini non mostravano alcun interesse sessuale per una donna che aveva già un compagno Oppure facevano continue concessioni al potere dell’uomo con cui la donna era in coppia spingendosi addirittura a cercare la sua approvazione rispetto al loro coinvolgimento» (104). Nel complesso, però, «gli uomini erano più disposti ad accettare e affermare l’uguaglianza in camera da letto che ad accettare la parità in materia di lavoro domestico e cura dei figli» (105).
Uno degli errori del femminismo è stato non mettere sufficientemente in primo piano i bambini come soggetti da difendere e proteggere: «nella nostra società la maggior parte delle persone crede ancora che le donne sappiano allevare i bambini meglio degli uomini» (108) e quindi ritiene in modo del tutto spontaneo da un lato che la cura dei bambini spetti in modo automatico alle donne e dall’altro che le donne siano capaci in modo naturale di avere rapporti non di dominio verso i bambini. Entrambi gli assunti sono arbitrari e non corrispondono alla realtà: «la verità è che molti bambini vengono quotidianamente maltrattati verbalmente e fisicamente da donne e da uomini. Il sadismo materno spesso porta le donne a maltrattare emotivamente i figli e la teoria femminista non ha ancora proposto né una critica ne un intervento femminista quando il problema è la viole nza di una donna adulta nel confronti dei bambini» (96).
«Nelle culture patriarcali capitaliste suprematiste bianche del dominio i bambini non hanno diritti…
il movimento femminista è stato il primo movimento per la giustizia sociale a richiamare l’attenzione sul fatto che la nostra è una cultura che non ama i bambini che continua a considerarli proprietà dei genitori, i quali possono fame ciò che vogliono» (96)
«In una cultura del dominio in cui i bambini non hanno dintti civili, gli uomini e le donne adulti, che sono in posizione di forza, possono esercitare un potere autocratico sui bambini» e «il rifiuto di affrontare di petto la violenza delle donne adulte contro i bambini ha costituito una grave lacuna nel pensiero e nella pratica femminista» (97). Anche su questo fronte la mossa strategica dei maschi patriarcali è stata quella di isolare le donne più deboli, ossia quelle sole: «Nessun contrattacco antifemminista è stato più deleterio per il benessere dei bambini del discredito sociale gettato sulle madri single… In una cultura che mette la famiglia patriarcale biparentale su un gradino più alto di qualsiasi altro tipo di struttura, tutti i bambini si sentona emotivamente insicuri quando la loro famiglia non è all’altezza dello standard»(101)
«I bambini hanno bisogno di crescere in ambienti amorevoli Dove il dominio è sovrano, manca l’amore. Mettere fine al dominio patriarcale sui bambini, da parte di uomini e donne, è il solo modo per fare della famiglia un luogo dove i bambini possano essere al sicuro, dove possano essere liberi dove possano conoscere l’amore» (101)
hooks, bell. 2021. Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata. Tradotto da Maria Nadotti. Edizione elettronica Kindle. Napoli: Tamu.